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giovedì 15 ottobre 2020

INTERVISTA/RECENSIONE - Gli "Asintoti e altre storie in grammi" di Davide Rocco Colacrai, portano 3cento grammi di felicità e l'infinito della poesia

"Asintoti e altre storie in grammi" è la sua ottava raccolta poetica. Quello che colpisce è la consapevolezza del ruolo del poeta che non si vede come un individuo avulso dal contesto generale, ma come parte di un essere e di un divenire storico in cui una miriade di contaminazioni plasmano il verso, libero di scivolare tra le intercapedini della vita. Scopriamo la recensione e l'intervista a Davide Rocco Colacrai


Il suo curriculum letterario è notevole. Davide Rocco Colacrai clicca qui  non è però un poeta che si colloca all'interno di una categoria. Il suo poetare sembra raccogliere la sfida della vita senza tuttavia affrontarla con la protervia di chi nel verso trova una definizione fissa e, forse, rassicurante. La poesia di Colacrai è un fluire di immagini tratte dalla quotidianità, di emozioni, di parole capaci di aprire a una molteplicità di mondi; la versificazione, decisamente lunga, sfugge alle regole della metrica. Nella lettura ci accorgiamo che non esistono rime, né disposizioni precise; tuttavia si avverte che non c'è una casualità, ma un narrato in cui ogni elemento, ogni parola, ha un significato peculiare e mai banale.

Neruda, Dante, Aristotele, la vita degli operai, la "malattia di attendere" e una sacralità che si da Verbo, oltre i dogmi. Cito: "Era affamato di tutto,/il più minuscolo granello spostato dal passaggio obliquo di una farfalla un miracolo,/ per ogni miracolo un fuoco dentro/che sprigionava parole,/le parole a imprimere un senso al mondo, una speranza,/più forte della pioggia, e anche della morte,/il suo canto alla vita,/a quello che, come brace, andava a comporsi e scomporsi/dietro la pelle, spessa e dura, degli adulti." ("Quando Neruda sognava sogni che non erano d'oro, forse"). In questa fame ritroviamo il poeta Colacrai che fagocita stimoli, osservando la vita che poi riversa sulla pagina in un un fiume di inchiostro. 

Le polarità trovano una spazio preciso. "La città nella sua inesausta malattia di essere e non essere." ("S'i fosse un fiore) il vivere umano è colto nel cuore di un immenso denso di sacralità: "Siamo sacri come il punto interrogativo che feconda,/nudo d’ombre, il cielo./Noi quel c’era una volta tatuato al mondo. Non ci sono soluzioni assolute, i mali umani non sono risolti o assolutizzati. Colacrai si pone come un osservatore attento, ben lontano da ogni giudizio. 

La sua poesia è il riflesso di una ricchezza umana che emerge senza presunzioni o pretese di verità. Nemmeno vediamo esiti egoici: il vissuto del poeta-uomo è prima di tutto una visione che si apre agli altri; è una consapevolezza che coglie nel vivere occasioni di viversi. Una poesia aperta al mondo, alla Storia, che si interroga sulla materia umana e che apre alla riflessione di un'esistenza che di default ci vuole fondamentalmente soli, in balia delle nostre paure ma anche dei desideri che ci accendono. Una raccolta poetica oltre l'io in cui troveremo delle corrispondenze ai nostri dilemmi e alle nostre curiosità.

L'intervista a Davide Rocco Colacrai


Benvenuto Davide, prima di parlare della tua ultima “creatura”, mi piacerebbe che ci raccontassi qualcosa di te, della tua formazione. Da Giurista e Criminologo alla poesia, quale filo rosso collega i diversi aspetti di attività in apparenza così lontane? 
Innanzitutto vi ringrazio per ospitarmi. Sicuramente sono sempre stato una persona molto curiosa, tormentata da molteplici domande e altrettanti dubbi, una persona dai tanti interessi e dalle tante passioni, sempre attiva e raramente ferma (a conferma, spesso mi sembra di aver vissuto almeno tre vite e non ho ancora raggiunta gli “anta”!), pertanto mi sono messo alla ricerca delle risposte di cui necessitavo – molte delle quali ancora non ho trovato – in via trasversale: negli studi (dei quali avevo bisogno per un senso di giustizia che mi infiammava), nella musica e nella lettura (per sopravvivere e non farmi schiacciare dal mondo, dal molto rumore, dalla sue brutture), nella recitazione (che mi ha aiutato a superare certi limiti, metà derivati metà auto-imposti come forma di disciplina) e infine nella poesia (a cui sono debitore perché mi ha salvato letteralmente la vita).

Leggendo il tuo curriculum letterario, sorprende positivamente sia la tua prolificità, oltre che le menzioni e i premi conseguiti. Di cosa si è alimentato e con quali modalità, tecniche e ispirazioni?
È la vita – le esperienze attraverso le quali si manifesta – che mi rende , al tempo stesso, affamato e prolifico. La prolificità la vedo come una conseguenza del mio essere affamato, curioso, in continua ricerca di un senso, di una risposta, di un momento – anche il più piccolo – di felicità. Come dicevo poc'anzi, sono le ingiustizie, le brutture, le cattiverie, le parole che hanno lo scopo di ferire, le critiche, la vita che prende altre direzioni rispetto a quelle desiderate, l’assenza di gentilezza, che mi spingono in avanti, che premono affinché io vada oltre, perché io racconti. 

Alla prima lettura di “Asintoti e altre storie in grammi” sono rimasta colpita dalle numerose e molteplici contaminazioni, legate a citazionismi diretti e indiretti. La tua poesia si pone su un piano storico preciso e ti chiedo quindi: in che ruolo ti poni come poeta?
La mia risposta a questa domanda è legata necessariamente alla mia poetica – infatti, trattando di temi storici e civili, sono solito affermare che il poeta ha il dovere di raccontare qualcosa che gli altri non conoscono o hanno preferito non conoscere, di prendere una posizione nel merito, di provocare riflessioni e confronti, di offrire un’angolazione della storia diversa, che provenga dal cuore della questione, forse più umana anche. 

Mi ha colpito molto l’associazione Dante-Aristotele: perché richiamare queste figure e con quale ruolo? Che cosa hai voluto esprimere?
Le poesie che vengono citate – perché si tratta di due poesie che affrontano lo stesso argomento da due punti di vista diversi, quelli dei protagonisti Dante e Aristotele – le ho scritte dopo aver letto un bellissimo libro sull’amicizia e sull’amore. Infatti, nei miei versi si affronta proprio il tema dell’amicizia e della famiglia, di come due persone (o personaggi) molto diverse si siano rivelate essere complementari e così perfettamente in sintonia. In altre parole, penso che non sia necessario trovare persone identiche a noi per andare d’accordo – e parlo sia con riferimento all’amicizia sia all’amore - , ma piuttosto persone che siano capaci di completarci, di migliorarci, di farci liberamente evolvere, con le loro diversità.

Nel tuo poetare trovo una commistione di elementi veicolati da immagini legate al quotidiano e impregnate di una forte sacralità. È forse una volontà di raccontare prima ancora che di esprimere?Devo dire che non ci ho mai pensato in questi termini, nel senso che il mio raccontare e il mio esprimere sono, per quanto mi riguarda, imprescindibilmente legati. Infatti percepisco questa necessità, questa urgenza, verso entrambi, o per essere più precisi verso un atto unico che fiorisce in due gesti che apparentemente sembrano separati ma dei quali l’uno presuppone l’altro, e infatti non riesco a pensarli, a concepirli, separatamente. 

La religione ha un ruolo importante anche soltanto nell’utilizzo delle parole. Ma di che religione si tratta e cosa abbraccia? La mia prima impressione è permanga una sorta di immanenza più che di trascendenza… 
Molti lettori mi hanno fatto notare che nelle mie poesie c’è un senso religioso e una visione sacra, e persino sacrale, molto forte. In effetti, credo in un qualcosa di superiore a noi – forse una Luce, un Universo, una Bontà – che, allo stesso tempo, ci abbraccia ed è dentro di noi, qualcosa che solo il cuore è in grado di percepire e, come tale, rendere tangibile. Pertanto direi che la mia visione, il mio sentire, abbraccia una trascendenza e una immanenza entrambe contemporaneamente esistenti negli stessi termini in cui lo sono il mio esprimere e raccontare.

Sulla felicità: perché proprio 3centogrammi?
Sono convinto attualmente che la felicità sia come un asintoto – “leggero”, in questo caso di breve, brevissima, durata e ontologicamente irraggiungibile. Qualcosa che c’è e non c’è, inafferrabile, non soggettivabile. Un piccolo assaggio per il quale ci struggiamo ripetutamente.

Nelle tue poesie ci sono anche il padre operaio, la madre che lavorava in fabbrica; ma c’è una tensione "all’infinito" non nel senso leopardiano del termine, ma nel senso di quell’attesa che è la vita dove si avverte una sorta di alienazione, di solitudine esistenziale non distinta anche dalla speranza. Che umanità metti in luce e con quale visione?
Sono cresciuto con figure – non solo quella della madre e del padre – che mi hanno profondamente segnato: figure che non si sono godute la vita neanche quando avrebbero potuto o dovuto, che hanno rimandato a un momento imprecisato il diritto a vivere, ad esistere oltre quel lavoro che succhiava da loro tutta l’energia, c’era una specie di colpa ad aleggiare nell’idea di fermarsi un attimo, di dedicarsi del tempo, di realizzare che non viviamo per lavorare ma che il lavoro dovrebbe essere prodromico alla costruzione della vita che desideriamo, c’era qualcosa che andava oltre la comune disciplina, qualcosa di fortemente religioso secondo cui esiste, deve esistere e può solo esistere il processo matrimonio-figli-lavoro-e-nientr’altro. Sono cresciuto quindi con quella che, in alcune poesie, ho chiamato la “malattia di attendere”.

Nella tua poesia c’è un lavoro linguistico che va oltre la questione della versificazione pur contemplandola; questo in ragione delle molteplici contaminazioni. Sul versante tecnico e stilistico, come procedi?
La verità è che non c’è alcuno studio tecnico né stilistico al momento. Scrivo naturalmente così – forse più che naturalmente, dovrei dire intuitivamente. Mi sono sempre e solo affidato al mio intuito. A conferma, posso dire che non mi ero reso conto per esempio della versificazione finché non mi hanno fatto notare che spesso “uso” versi lunghi, tipici degli anni Settanta, qualcuno ha azzardato di stampo pasoliniano.

Si tratta della tua ottava raccolta antologica. Come si pone rispetto alla tua produzione poetica? 
Questo mio ottavo libro di poesia rappresenta, nel mio percorso poetico, un momento di maturazione molto importante, forse anche un momento di definizione rispetto al libro precedente, “polaroiD”. È un libro sicuramente molto personale, autobiografico, benché non ci siano poesie in cui parlo espressamente di me, tuttavia è come se fossi presente in ognuna nella mia semplice nudità, io con la mia anima.

Tra le tue raccolte o singole poesie, ce ne sono alcune che hanno o hanno avuto un ruolo cruciale nel tuo poetare? Se sì, quali sono e che cosa hanno significato/cosa significano?
Sicuramente ci sono state poesie che, rispetto ad altre, hanno avuto un importante apprezzamento – qualcuno di parla di successo, parola che non amo – in termini di riconoscimenti ricevuti, ricordo per esempio Canto dei miei sette anni, La sottile bellezza dell’imperfezione, Ternitti/Eternit, Gli eterni ritorni. I due libri a cui sono maggiormente legato sono “Istantanee Donna (poesie al femminile)”, che mi ha permesso di portare il mio spettacolo di poesie in teatro in giro per l’Italia e “polaroiD”, per la cui realizzazione ho collaborato con un artista visuale brasiliano che ho scoperto su Instagram. Entrambi due lavori molto belli, che mi hanno dato ognuno le sue soddisfazioni, e di cui sono ancora oggi particolarmente orgoglioso.

Se ci guardiamo intorno, notiamo a livello Social che c’è una produzione notevole a livello poetico, ovviamente con esiti variegati. Tu come vedi la poesia, oggi? Che ruolo ha nella nostra società?
C’è un grande fermento poetico oggi, anche grazie ai social, e ognuno è libero, e ha l’occasione, di raccontare qualcosa, anche un semplice pensiero, e di esprimere una sua posizione su un argomento, di farsi ascoltare; resta il fatto tuttavia che molti poeti preferiscono “nascondersi” dietro una scrivania piuttosto che farsi portavoce della poesia in prima persona, piuttosto che farsi ascoltare veramente. Di conseguenza la poesia continua a rimanere la sorella sfortunata della prosa, a vivere nella sua ombra.

E tu come poeta, come ti collochi (se ti collochi)?
Non so dire esattamente come o dove mi colloco nella mia qualità di poeta; a me piace relazionarmi con gli altri, sedere sulla scrivania (mai dietro!) o meglio confondermi con i lettori e ascoltare quello che hanno da dire e soprattutto quello che non dicono, mi piace percepire gli spazi bianchi tra le cose dette, anche le emozioni. 

Arriviamo all’ultima domanda: quali sono i tuoi progetti per il futuro? 
Ho già pronto il mio nuovo libro – ancora più forte di Asintoti –, ma vorrei andare in tour con quello attuale come ho fatto con i miei libri precedenti, sperimentare nuovi modi per far arrivare la poesia alle persone, e divertirmi. La poesia è anche divertimento. 

L'autore: Davide Rocco Colacrai
Giurista e Criminologo, classe 1981, Davide Rocco Colacrai è al suo undicesimo anno di carriera e nel frattempo ha ricevuto numerosissimi riconoscimenti, molti dei quali anche internazionali. Tra gli ultimi: "Il Memorial Gennaro Sparagna", "L'Unicamilano", "Le rosse pergamene". 
Le sue raccolte sono: "Frammenti di parole" (2010), "SoundtrackS" (2014), "Le trentatrè versioni di un'ape di mezzanotte" (2015), "Infinetisamilità" (2016), "Istantanee Donna (poesie al femminile" (2017), "Il dopo che si ripete, sempre in sordina) (2018) e "polaroiD) (2018) che ama presentare sotto forma di spettacoli di "poesia in teatro" con cui gira da alcuni anni l'Itali
a. 

Scheda tecnica del libro
Asintoti e altre storie in grammi
di Davide Rocco Colacrai
Genere: Poesia
Casa Editrice: Le Mezzelane
Anno: 2019
Sito casa editrice: clicca qui


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