martedì 9 gennaio 2018

"Ballando sotto la pioggia - 6 Settembre 2011" - Da un incipit

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La Golf  V infrangeva le tenebre, luce rapida che si proiettava verso la destinazione. Il piede pestò sull’acceleratore seguendo il crescendo di Welcome to the jungle.
Alessandra Martinelli, per tutti Ale, sbirciò nello specchietto retrovisore. Ombre ancora decifrabili di chiome frastagliate,  case e fienili annegavano nel buio, perdendo definizione a ogni metro percorso.




La memoria colmava le lacune. La memoria della bambina che con la Mountain Bike si poneva ai margini delle carreggiate, sfidando la gravità. Un piede avanti, il manubrio tirato verso di lei, la spinta verso l’alto sulla sella viola. 
Viola, come le strisce che attraversavano i capelli scuri dandole un tocco di estro. Viola, nella scala di Aura Soma e nella scala dei colori, l’indice della spiritualità, la declinazione di un’anima artistica. Il titolo di quel film che l’aveva toccata nel profondo quando era una ragazzina e a scuola si sussurrava di xeno…
Come si diceva?
Labiale, scandiscilo bene.  xenofobia.
C’è gente che porta il velo nel cuore, ma nessuno si mette a ridere.  C’è gente che copre il cuore: quella è la gente più infida.
Forse anche lei era infida. Forse nella sua corsa a perdifiato stava dimenticando qualcosa.
Che cosa?
Un paio di luci sul ciglio della strada. Due stelle cadute sulla terra?
Frena Alessandra!
Inchiodata. Una scheggia nera, caudata, attraversò la strada. Il cuore in gola, il velo caduto a mostrare le lacrime che dal dotto, s’intrufolarono negli occhi, incapaci di trattenerle.
Ale posò la fronte sul volante. Non le importava se qualcuno avrebbe pestato il clacson per indurla a riprendere la marcia. Restò immobile, viola dentro, viola fuori, il velo caduto ai suoi piedi. Fragile: lo era in quel momento in cui soltanto la luce dei fari attenuava il dolore in cui si struggeva.
Si sollevò dal cerchio, raddrizzò la schiena contro il sedile. Si accorse di averlo spostato di almeno tre centimetri verso quello posteriore. Si inclinò sulla destra, verso la leva, per riportarsi alla posizione di guida; nel farlo, torse lievemente il corpo, gesto da cui scaturì una fitta all’altezza dell’ovaia destra. Una smorfia ammorbidì i lineamenti resi ancora più spigolosi da una tensione perenne. Il dolore si propagò al basso ventre, l’utero pulsò insieme all’altra ovaia, coinvolgendo anche il fegato e lo stomaco, fibrillanti per lo sforzo amplificato dalla torsione.
Accese la luce dello specchietto retrovisore. Si sollevò per guardare gli occhi umidi e arrossati su cui passò un fazzoletto di carta. 
Via le lacrime, via i pensieri, mi diceva nonna Bea.
Richiamò il buio, portò le dita alle chiavi, si bloccò sui pensieri. Respirò, sperando di portare via le fitte, in graduale attenuazione.
Si concentrò sulla ragione che l’aveva portata su quell’auto, a correre, correre come non faceva da tempo. 
«Non può essere. È sempre la stessa storia.»
Erano passati più di due anni da quella discussione.
Da allora…
Quante volte, come quella sera, sembrava decisa a fare, fare, fare, e poi sono io quella che deve correre?
Uno scatto del piede destro, come un tic incontenibile, mentre i denti stretti trattenevano le parole che avrebbe voluto urlare al cielo, come titolava quella canzone di Ligabue. Doveva trovare il modo per non implodere, così tenne premuto il pulsante del rewind per tornare all’assolo di Slash. Alzò il volume, portò la mano all’altezza dell’ombelico visualizzando la cassa armonica, mentre con la destra ripiegata sul gomito immaginava di percorrere le corde della tastiera. Le dita correvano, mentre il motore della Golf borbottava note basse.
Ale simulò il blending, un passaggio di note in cui le dita si snodarono con disinvoltura. Slash correva alto, lei lo seguì fino all’esplosione finale, quando la voce di Axl Roses ruppe altre tensioni. I dolori della novella Werther si sciolsero, spingendola ad abbandonare  le tensioni vagolanti nella penombra, per correre di nuovo con la sua auto.
Non poteva fare nulla, se non annullarsi nel già vissuto.  La sua vita era una coazione perenne, oltre la noia, il viola, le fitte che si accendevano e spegnevano come epifanie del corpo.
Un lampo illuminò i grappoli di nuvole gonfie di pioggia.
Welcome to the jungle terminò.
Ale imboccò una curva a tutta velocità: l’auto si spostò al centro della carreggiata, ma un colpo di volante la riportò sulla destra. Accelerò sul tratto dritto, su cui frenò dolcemente. La freccia di destra scattò, mentre un fulmine esplodeva dividendosi in decine di diramazioni nel cielo nero. Il veicolo entrò in una via stretta, illuminata da quattro lampioni. La pioggia cominciò a cadere, Ale volse lo sguardo a destra e a sinistra, verso gli scheletri in muratura avvolti dalla semioscurità. Accanto a un edificio intravide la sagoma di una betoniera. Ma a lei non interessava controllare lo stato dei lavori in corso. A lei interessava trovare la principessa da salvare e magari il drago. Doveva sconfiggerlo, una volta per tutte.
Volgendo lo sguardo alla sua destra, notò una Clio blu notte. Inchiodò accanto al veicolo, uscì, incurante delle gocce, fredde su di lei. Afferrò la maniglia della portiera posteriore, la spalancò, fece per aprire la bocca. L’urlo che aveva nella gola morì alla vista dell'amica raggomitolata sul sedile.
«Daisy?»
 Visibilmente agitata, piegò il busto in avanti e portò avanti le braccia.
«Alessandra?»
Un singhiozzo nella semioscurità.
Ale si ritrasse, aprì la portiera anteriore, accese la luce posta sopra lo specchietto retrovisore, tornò di nuovo dall’amica. Trasalì alla vista del volto sconvolto. La matita formava un impiastro nero sugli occhi creando un buffo effetto-Panda, come diceva sempre lei; il rossetto era sbavato intorno alle labbra.
Le asciugò le lacrime, gesti decisi sulla pelle delicata che avrebbe voluto percuotere. Ma non poteva. Nessun dolore in aggiunta. Sollevò le braccia, scoperte fino all’altezza del gomito, si protese verso il collo, sollevò i jeans per controllare le gambe.
«Per fortuna che non hai dei lividi.»
Lasciò cadere il tessuto. Daisy si mise a sedere. Nascose la fronte contro le ginocchia unite, quindi fece uno scatto verso l’amica, pronta ad accoglierla.
«Io  voglio soltanto lui,» balbettò «perché io ho cercato, ma…»
«Taci.» Ale le passò le mani tra i capelli. «Sai di gardenia. Il profumo preferito di Sebastiano, se non sbaglio.»

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