lunedì 26 dicembre 2016

La regina di Eptalon - Inedito 2007

Un mio tentativo 'urbanfantasy' (2007)


Tasha aprì la porta lentamente. Avanzò in silenzio nel buio creato dalla tapparella abbassata. Andò dritta, si spostò lateralmente, sulla sinistra, di tre passi per non urtare il letto. Avanzò ancora, finché con la mano non sfiorò la superficie liscia del comò laccato.
Le dita scivolarono rapide come le zampe di un ragno.



Si fermarono solo al tocco della statuina della Geisha.
La ragazzina storse le labbra. Portò ancora avanti la mano, finché non incontrò quello che cercava. La scatolina di metallo che racchiudeva un segreto tutto da scoprire, era nelle sue mani. La stringeva al petto, come un amore ritrovato dopo anni di separazione. Eppure non ne conosceva nemmeno il contenuto. Ricordava soltanto il sogno, quel bambino che implorava il suo aiuto.
“E come posso aiutarti?” gli aveva chiesto con i lucciconi agli occhi.
“Devi prendere la scatola che trovi sul mobile di Pamela”.
“Pamela?”
“Sì, quella che tu chiami mamma” sibilò lui spruzzando tutto il suo astio “In realtà…”
Un accordo di chitarra in distorsione l’aveva letteralmente buttata giù dal letto, interrompendo il sogno e con lui una rivelazione di cui la ragazza aspettava il seguito con trepidazione. Ma la notte successiva non ebbe alcuna visita, e così di seguito. Da un anno, ormai, dell’appello era rimasta un’eco remota che, improvvisamente, in quel pomeriggio di mezza estate, era riesplosa, traducendosi in un’impellente urgenza.
Se sua madre l’avesse colta sul fatto, sarebbero stati dolori e affini. Ma Pamela non sarebbe tornata prima di cena e per lei la via era libera. O, almeno, così credeva.
Tasha era già in procinto di andarsene con il bottino, quando qualcosa la sfiorò.

La ragazzina si precipitò verso la porta. Cercò di girare la maniglia, ma la mano si ritrasse al tocco di una sostanza vischiosa sul metallo freddo. Due mani le artigliarono le spalle.
“Ma cosa…”.
Non lasciò cadere la scatola. La strinse forte contro il petto dove il cuore aveva bissato ogni record di battito centometrista.
“Rimettila a posto e vattene subito da qui.”
La voce, più ruvida della carta vetrata, le fece accapponare la pelle.
“Ma… ma… tu chi sei?” balbettò la ragazza.
“Non importa chi o cosa sono. Molla l’osso e torna ad ascoltare il tuo pattume sonoro”.
Fu come un pugno allo stomaco. Per lei, passava il fatto che voce- di- carta-vetrata sapesse il suo nome. Ma Lady Gaga non si toccava. E la scatola men che meno.
La ragazzina afferrò il braccio che la teneva imprigionata e con un Harai Goshi atterrò l’avversario.
“Non avresti dovuto sfidare una cintura verde di Judo.”
Si precipitò verso l’interruttore della luce di cui gli occhi ormai abituati all’oscurità, ricordavano la posizione, ma qualcosa di simile a un tentacolo le avvolse la gamba facendole perdere l’equilibrio proprio mentre il dito era sul pulsante. La luce si accese, la ragazza cadde sul ginocchio e riuscì a visualizzare voce-di-carta-vetrata.
La creatura mise le mani davanti a quello che poteva chiamarsi per eufemismo “viso”. Uno sgraziato triangolo che aveva per naso una proboscide, culminante in una cuspide. Le labbra erano spaghetti di carne viola, come gli occhi, che conferivano a quell’essere qualcosa di umano, se così di poteva dire all’ombra di un altro eufemismo.
La ragazzina si addossò alla porta, il coraggio svanito in un attimo.
“Mioddio… ma cosa…”.
Confusione, paura, stupore. Lo stesso mix che vedeva in quell’essere immondo.
In quel momento la carta vetrata era diventata velluto lagnoso.
“Ti prego, non dirmi che sono un orrendo, malvagio, blasfemico, mefistofelico mostro!”
La ragazzina alzò il sopracciglio. Il mix di stati d’animo si era compattato in un’unica soluzione. Era perplessa. Si prese alcuni minuti di riflessione. Non sapeva quanto tempo era passato, né quanto mancava al ritorno della madre.
“Non ti preoccupare, abbiamo ancora tempo” disse l'essere, quasi insinuante.
“Tempo per cosa?”.
“Prima che torni il demone. Cioè…” notando il cambio repentino di espressione, si corresse “Ehm, scusami, volevo dire… io… cioè… il demone…”
“Oh insomma, piantala, o mi farai venire un attacco epilettico!”
Il mostro strinse le labbra a spaghetto.
“Scusami.”

Tasha scosse il caschetto castano. Ormai si era abituata a quella visione, certa che fosse il personaggio di uno dei suoi incubi ricorrenti. Scattò in piedi, si diede un pizzicotto e urlò: “Allora, quando suona la sveglia?”
Non accadde nulla. Solo un rumore di tacchi dal piano di sotto. E la voce inattesa.
“Tasha, sei in camera tua?”
L’essere balzò in piedi, avanzò verso l’umana che cercò di aprire la porta, ancora una volta inutilmente. Si sentirono i passi rapidi sui gradini. Era sempre più vicina. Un’interruzione, un richiamo che echeggiò nella stanza tappezzata di poster di Lady Gaga, Robert Pattinson e Justin Bieber.
“Tasha? Sei in bagno?”
La ragazza si volse verso la porta, poi verso la creatura che stiracchiò un sorriso.
“Comunque io sono …”
“Tasha?”
La voce era sempre più vicina, i due sempre più nervosi.
“Io mi chiamo…”
“E ti pare il momento per i convenevoli?” lo tranciò lei a bassa voce “E adesso che faccio?”
“Tasha?” vide la maniglia sbloccarsi, l’uscio aprirsi gradualmente, la donna dalla criniera leonina affacciarsi sulla soglia.
“Ma cosa…”
La stanza era vuota. Tutto era in ordine, a parte la luce che era certa di avere spento prima di uscire. Pamela avanzò ancheggiando. Passò le mani sulla Geisha che assunse le sembianze di una tirolese con trecce alla Pippi Calzelunghe.
“Questa mi piace di più” gongolò, prendendo la scatolina tra i palmi. La aprì, annusò il coperchio, che abbassò con un colpo secco.
"Profumo muschiato… E…” si guardò intorno, le orecchie tese, le narici in movimento “di…” sorrise, rivelando i canini dell’arcata inferiore, più lunghi, “Demone. Tasha, Ipos, so che siete qui!”
Allungò il braccio aprì l’anta dell’armadio. Scostò i vestiti appesi alle grucce, in mezzo ai quali erano nascosti i due intrusi.
Tasha era impietrita dal terrore. Non poteva essere sua madre, quella creatura orrida. Fu allora che i canini si ritrassero, tornando alle dimensioni normali, il volto, prima corrugato da un’espressione malvagia, si distese. Pamela tornò a essere l’umana dalla bellezza sfolgorante da cui la figlia si sentiva oscurata.
“Amore, ma cosa ci fai tra i miei vestiti? E per di più in compagnia di un demone?” inclinò la testa “Vieni fuori!”
La ragazzina era paralizzata dal terrore. Una mano le sfiorò i capelli. Non avere paura. Quella voce. Il bambino che le aveva chiesto aiuto e che era sempre rimasto vicino a lei, un soffio d’anima che svelava in quel momento la sua presenza.
“Allora che aspetti? Esci?”
“Io… io”.
Non avere paura. Una carezza per le orecchie e per il cuore, che attivò i piedi scalzi. Uscì, accolta dalla mano della madre che le sfiorò delicatamente le guance.
Pamela sorrise.
“Non avere paura."
Le sfiorò gli zigomi, quindi passò al collo, con tocchi più decisi. Malgrado la punta delle unghie la graffiassero lievemente, c’era una dolcezza rassicurante in quei gesti. Forse sua madre l’avrebbe condotta in cucina, dove le aspettava una maxi coppa di gelato alla vaniglia e le solite chiacchierate fashion della settimana. O forse, si sarebbe svegliata e il mostro sarebbe sparito e lei sarebbe corsa verso il sole albeggiante per salutare una nuova giornata di vacanza. Ma il mostro era lì, la proboscide arrotolata, lo sguardo di un valvassino in punizione.
Le dita scesero sulle spalle, sulle braccia, verso la schiena. Esitarono, poi risalirono e improvvisamente scattarono, manette di ghiaccio intorno al collo. La morsa che si faceva sempre più ferrea, le preghiere dell’adolescente si ridussero a gemiti soffocati.
A quella vista, il mostro si precipitò fuori dal rifugio. Cercò di forzare la morsa, ma una scarica elettrica lo fece sbalzare contro la parete, cui rimase appiccicato.
“Non ti immischiare, razza di errore sovrannaturale!” si rivolse alla ragazza “E ora, piccola, ci trasferiamo laggiù.”
“Mamma, ma…” Tasha cercò di staccarsi le dita di dosso, ma per quanto premesse, non ce la fece, il volto cianotico. Tutto iniziò ad assumere contorni sempre più sfocati, gli occhi si appesantirono, finché i sensi non la abbandonarono. In quel momento, si sentì precipitare, ma non seppe quando fu atterrata,

Aprì gli occhi dopo un sonno tenebroso, sdraiata su un pavimento roccioso, davanti a lei uno strapiombo, sotto il suo sguardo, un oceano che rispecchiava le tinte del cielo livido. Tasha si alzò sul busto. Prima che potesse farsi qualsiasi domanda, la voce della madre la riportò alla realtà di quell’incubo a nero di seppia.
“Ben svegliata, amore.”
La figlia fissò gli occhi su una scena surreale. Pamela era seduta su un trono, la chioma simile a quella di una Medusa invasata, il corpo avvolto in uno strato di veli spessi come cartavelina. Teneva in grembo un serpente che accarezzava, languida, mentre Isop le porgeva un calice colmo di un liquido blu. La creatura indicò la ragazza.
“Servo, devi portarlo a lei, non a me.”
“Mi perdoni signora, avevo capito male.”
“Come al solito."
La guardò, una lacrima all’angolo degli occhi.
“Perdonami Tasha, non sono riuscito a salvarti” le sussurrò, gli occhi accesi da un sentimento inconfondibile.
“Eddai, sbrigati a farle bere il veleno!”
La ragazzina si alzò in piedi.
“Veleno?”
A un cenno della donna, Tasha cadde a terra, spinta da una forza sconosciuta, impossibile da contrastare.
“Sì veleno. Devi berlo per completare la tua trasformazione in demone.”
“La mia trasformazione in cosa?”
“In demone” Pamela addolcì il tono e l’espressione, che si fece più comprensiva “Va bene ti spiegherò un po’ di cose.”
Si alzò rischiando di urtare con la testa il soffitto di quel luogo indefinito. Le si avvicinò, portando con sé una sgradevole essenza di decadenza. Le labbra luccicavano di una sostanza che non poteva essere rossetto. No quello era sangue. Un rivolo sottile, visibile soltanto da vicino, scese sul mento.
Tasha si strinse le gambe, tremando, come quando, bambina, papà le raccontava dell’uomo nero per indurla a non fare più i capricci.
“Sei come una fogliolina che non vuole staccarsi dal suo albero” sussurrò il mostro, posandogli le mani sulla testa “Ma io ti farò diventare pungente e forte come un cactus”
Le raccontò tutto.

Pamela era in realtà Attinia, signora di Eptalon, regione di Demonia, meglio conosciuta dagli umani come Inferno. Era giunta sulla Terra con una missione: recuperare le lacrime di bambino per consentire la nascita di demoni che a Eptalon erano a rischio di estinzione. Le ragioni erano ignote persino al Concilio scientifico supremo della regione; si sapeva soltanto che le lacrime scaturite dalla vera sofferenza dei bambini avrebbero permesso il ripopolamento di Eptalon. Attinia aveva viaggiato in lungo e in largo per la Terra ed era riuscita a recuperare le lacrime di alcuni piccoli che aveva poi trasformato in demoni cortigiani. Un giorno aveva incontrato lui. Loris, un bambino orfano dall'incredibile sensibilità, ereditata da un antenato elfo. Insomma, strani giochi della genetica, secondo Attinia, che riuscì a raccogliere le sue gocce di tristezza e a condensarle in un cristallo. Ma mentre stava per trasformare il piccolo in demone, la sua anima era riuscita a scappare in un luogo di luce, a lei inaccessibile.

“Così Loris ha chiesto a te di recuperare il tesoro, per poter spezzare il sigillo che tiene imprigionati i piccoli trasformati nei miei schiavi” fece una pausa “Un modo per distruggere Eptalon.”
Tasha era senza parole. L’assurdo si era aggiunto all’assurdo che suonava come lo sciabordio dell’oceano sottostante. Dunque Isop era uno di quei bambini trasformati. Dunque si spiegavano le misteriose sparizioni di alcuni bambini avvenute negli ultimi anni. Soltanto un paio di loro erano stati ritrovati, ma i medici legali avevano costatato la morte per disidratazione senza mai riuscire a risalire alle effettive cause dei decessi.
La ragazzina fece appello al coraggio che aveva nel cuore. Si alzò in piedi, pronta ad affrontare Pamela e i suoi serpenti ritti in testa.
“Ma tu…” esitò, poi sparò il quesito a bruciapelo “Sei mia madre?”
Pamela sospirò simulando il dolore.
“Ho preso il posto di tua madre…”
“Vuoi dire che è morta?”
“No” cambiò discorso, brusca “ Però, sai Tasha, mi piaci tanto che ho deciso di trasformarti nella mia erede.”
“E dunque dovrei morire definitivamente affinché tu mi possa trasformare in un demone?”
Attinia la abbracciò, poi si staccò tenendo le mani sulle spalle, esultante.
“Già”.
“Quindi ora sono in uno stato intermedio, ovvero tra la vita e la morte?”
“La tua intelligenza mi ha sempre entusiasmato.”
“Ma… dov’è mia madre?”
“Questo non mi è dato saperlo”
“E papà?”
Il demone abbassò la testa, la voce rotta da finta commozione.
“Oh povero papà… lui è impazzito. Forse è rinchiuso in qualche clinica, forse è rinsavito … Della sua sorte nulla so…” fece una pausa ignorando l’espressione sconvolta dell’adolescente, poi indicò il calice “Ma pensiamo alla tua sorte”.
Non farlo. La voce di Loris rimbalzò nell'oscurità.
“Ma com’è possibile che Loris sia qua? Questo mondo è inaccessibile se non…” la comprensione della situazione si fece strada nella mente dell’essere “Ora ho capito Loris è… dentro di te! Si è reincarnato in te… Ma… come ha fatto?”
La ragazzina era confusa. Teneva tra le mani il bicchiere, incerta sul da farsi. Attinia, la stava costringendo a bere il siero malefico. Se non l’avesse fatto, l’avrebbe cancellata dalla faccia di tutti i mondi possibili e. morendo, non sarebbe riuscita a distruggere il diamante per redimere Loris e mettere fine alle angherie della perfida creatura. La quale indovinò i suoi pensieri.
“Tesoro mio, non hai molte scelte. O muori per sempre o vivi come demone. E se vivi come demone, non potrai aiutare Loris.”
La ragazzina esitò, poi portò lentamente il calice alla bocca. Attinia la guardava, pregustando il suo trionfo.
La bevanda stava ormai entrando nella bocca, quando qualcosa colpì la mano che teneva il bicchiere. La proboscide di Isop. Tasha alzò gli occhi e allora vide il mostro lanciarle la scatolina. Prima di ritornare a Eptalon, non visto dalla padrona, era riuscito a sottrarla.
Attinia non fece in tempo a reagire, che la ragazzina aveva già in mano il contenuto, che gettò a terra, tra le urla del demone.
Tutto tremò sotto e intorno a loro. Dall’oceano si sollevò un’onda che travolse i presenti e il regno. Nemmeno Tasha poté sottrarsi al moto ondoso, all’acqua salata e fredda che le entrava nel naso e nella bocca, mentre veniva trascinata in abissi sempre più scuri. Perse di vista Attinia e Isop, di cui colse un grazie urlato a piena voce.

Il buio lasciò il posto alla luce. Tasha si trovò nella camera di Pamela –o di Attinia- grondante acqua salata. Superato l’attimo catatonico, la ragazzina s’infilò sotto la doccia, lavò via i residui di sale, uscì, si avvolse in un asciugamano e si precipitò nel corridoio, giù per le scale. Si affacciò sulla soglia della cucina dove la mamma stava sistemando la spesa.
Quindi si fiondò in giardino. Esaminò i fiori, gli alberi, l’erba. Fece correre lo sguardo oltre la recinzione, dove un ragazzo della sua età stava aiutando i genitori a scaricare alcuni scatoloni.
Dovevano essere i nuovi vicini, mamma le aveva detto che sarebbero arrivati entro la fine della settimana. Ed era venerdì. Mentre usciva dalla porta finestre il ragazzo la notò. Aveva due occhi viola e famigliari un sorriso radioso che si accese alla vista della ragazzina.
Tasha arrossì. Un dettaglio la attirò verso la t-shirt su cui troneggiava la scritta Isop a caratteri gotici.
Lui si avvicinò.
“Ciao. Tu devi essere Tasha. Io mi chiamo Alex.”
Lei trasalì, ma si riprese subito. Cercò la risposta tra le pieghe della mente.
“Sì... Ma come fai a conoscere il mio nome?”.
Lui sorrise ancora.
“Vedi, noi ci siamo già visti. Ed è come se ci conoscessimo da sempre.”
Tasha indicò la maglietta.
“E quello?”
“Questo? E’ la mia band. Facciamo alternative rock… cover e qualcosa di nostro” fece una pausa “A proposito, sabato sera suoniamo in un locale del centro, ti va di venire con qualche tua amica?”
“Non mancherò.”
“Alex, puoi scaricare l’ultimo scatolone?”.
“Sì, papà” Alex si rivolse alla ragazza “Ci vediamo.”
Non fece in tempo a muovere due passi, che Tasha lo richiamò.
“Alex?”
“Sì”.
“Bel nome, Isop.”
Lui le strizzò l’occhio, complice.
“Certe cose non si scordano così facilmente.”

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