L'intervista a Yuleisy Cruz Lezcano
Ciao Yuleisy, benvenuta su La Penna Sognante. Ci racconti qualcosa di te? Formazione, lavoro, cosa ti piace, cosa non ti piace?
Sono una donna nata a Cuba, in una terra piena di contraddizioni. Sono arrivata in Italia molti anni fa, portando con me non solo le radici della mia isola, la sua forza, la sua poesia, le sue contraddizioni, ma anche la voglia di trovare una nuova lingua, un nuovo modo di esistere, e di raccontare. Scrivo perché non posso farne a meno, perché in ogni parola trovo un atto di resistenza, un gesto d’amore verso chi non può parlare o è stato messo a tacere. Io mi sento una sorta di ponte tra due mondi: Cuba e Italia. Porto dentro di me la spiritualità afrocubana e l’esperienza della migrazione, e tutto questo confluisce nella mia scrittura, che è corpo, è sangue, è canto. Essere portatrice di due culture così diverse — quella cubana e quella italiana — è per me un dono, ma anche una sfida profonda. È come vivere con due cuori: uno batte al ritmo del tamburo afrocubano, l’altro si muove con il respiro antico delle colline italiane. Porto dentro di me il calore, il sincretismo, la musicalità e il dolore della mia terra d’origine, e al tempo stesso ho imparato la lingua dell’accoglienza (a volte faticosa), del silenzio europeo, della riflessione più razionale. Nella mia poesia questo si traduce in una voce che mescola ritmo e denuncia, corpo e spirito, magia e realtà concreta. Uso immagini forti, simboli che vengono da entrambe le culture. Parlo di sangue, di pelle, di diaspora, di ferite aperte che cercano guarigione. La mia lingua poetica è ibrida, contaminata, e forse proprio per questo capace di rompere i confini. Questa doppia appartenenza mi rende sensibile al dolore degli altri, soprattutto di chi vive tra due mondi, tra due identità. Scrivo per dare forma a questa tensione, per non dimenticare chi sono, da dove vengo, ma anche per costruire ponti, per trasformare la frattura in canto. Sono arrivata in Italia nel 1992, e ho intrapreso quasi subito a studiare. Ho la laurea magistrale in scienze biologiche e una seconda laurea magistrale in scienze infermieristiche e ostetricia. Lavoro in sanità pubblica e mi piace molto stare tra le persone, la compagnia, ridere con gli altri, la musica, la pittura, l’arte in generale. Adoro viaggiare, scoprire nuove culture, mi piace l’architettura, mi piace visitare musei, mostre d’arte, visitare i castelli, i cimiteri, mi piace fare trekking, sub, mi piace anche leggere e il cinema.
Com’è cominciato il tuo percorso poetico?
Il mio percorso poetico è cominciato come un bisogno interiore, come un’urgenza dell’anima. Sono cresciuta a Cuba, in una realtà intensa, piena di contraddizioni, di bellezza ma anche di sofferenza. Fin da piccola ho sentito che le parole potevano dare forma a tutto ciò che non riuscivo a dire altrimenti. La poesia è diventata il mio modo per abitare il mondo, per affrontare l’esilio, la distanza, la memoria.
Quando sono arrivata in Italia, portavo con me non solo una valigia, ma anche un mondo di emozioni e di lingue diverse. Scrivere in italiano, per me, è stato un atto d’amore e di resistenza. È come se la poesia mi avesse scelta, e non il contrario. Mi ha accompagnata, mi ha consolata, mi ha dato una voce. E in quella voce ci sono le donne, gli immigrati, la terra, il corpo, la lotta. La mia scrittura nasce da tutto questo, da una ferita ma anche da una speranza.
Hai all’attivo numerose pubblicazioni: che evoluzione ha avuto il tuo scrivere?
All'inizio, la mia poesia era intimistica, profondamente radicata nel mio sentire interiore. Scrivevo per dare voce al vissuto della diaspora, alla nostalgia che accompagna chi è costretto a lasciare la propria terra d’origine, segnata da conflitti e fratture. Era una scrittura che nasceva dal bisogno di elaborare la perdita, di costruire un ponte tra ciò che ero stata e ciò che stavo diventando.
Con il tempo, però, la mia poesia si è trasformata. È uscita dal confine dell’Io per abbracciare una dimensione più collettiva, più politica. Ho iniziato a dare voce non solo alla mia esperienza, ma a quella di tante altre donne, migranti, corpi feriti eppure vivi. La lingua è diventata un territorio da reinventare, un atto di resistenza e rinascita. Ho mantenuto la dimensione del sentire, ma l’ho intrecciata con quella dell’ascolto, del dialogo con il mondo. Col tempo, però, ho imparato ad affinare la voce, ad ascoltare anche il silenzio tra le parole. Ho imparato a lasciare spazio alla tenerezza, alla maternità, all’eros, al paesaggio interiore. Non ho mai smesso di scrivere del corpo e della sua storia, ma ora quel corpo è anche luogo di trasformazione e rinascita. La lingua italiana, che all'inizio era un confine, è diventata una complice. La poesia, per me, è diventata più politica, più aperta, più dialogante. E credo che questa evoluzione continui ancora. Ogni libro è un passaggio, una nuova domanda, mai una risposta definitiva.
Quali sono le raccolte precedenti al 2024 cui sei più legata e per quali ragioni?
«L’infanzia dell’erba», pubblicata nel 2023 e «Credibili incertezze» pubblicata nel 2016. Poi, il mio primo libro di racconti, che è in realtà un memory storico ambientato a Marzabotto durante la Seconda Guerra Mondiale, che racconta la guerra e le abitudini spezzate viste attraverso gli occhi di un bambino; il suo titolo è «Frammenti di sole e nebbia sull’Appennino», 2016.
Scrivi che “la poesia è l’anima del pensiero”: in cosa consiste quest’anima?
Per me la poesia è l’anima del pensiero perché ne rappresenta la parte più viva, sensibile e misteriosa. Il pensiero può essere razionale, logico, strutturato, ma è nella poesia che esso trova respiro, emozione, profondità. L’anima del pensiero è ciò che lo rende umano: è il tremore dietro le parole, la verità che non si lascia dire in modo diretto, ma che vibra tra le righe, nei silenzi, nelle immagini. Quell’anima è intuizione, visione, sogno. È capace di toccare l’invisibile, di connettere memoria e futuro, corpo e spirito, individuale e collettivo. Quando scrivo poesia, non penso solo con la mente, ma con la carne, con la memoria, con le radici. È un pensiero incarnato, che si fa voce, ritmo, resistenza. In fondo, l’anima del pensiero è ciò che ci permette di non vivere in superficie. È ciò che ci salva dalla banalità, dal vuoto, dall’indifferenza. La poesia, in questo senso, non è un lusso: è un’urgenza, una necessità vitale.
Poesia è anche linguaggio e il tuo scrivere è composito da questo punto di vista, alla luce delle tue radici cubane. Oppure c’è una compenetrazione linguistica?
Nelle mie poesie, le parole sono radici: tengono legata la persona alla propria storia, alla propria verità. Il linguaggio, per me, non è mai neutro — è corpo, memoria, sangue. La mia scrittura nasce da una compenetrazione profonda: porto dentro di me l’eredità sonora e immaginifica della lingua spagnola, che è la mia lingua madre, ma scrivo in italiano, la lingua che mi ha accolto, che ho scelto, e che ho dovuto anche conquistare. Non vedo queste due lingue come separate, ma come due fiumi che si intrecciano: il mio scrivere è composito proprio perché è abitato da entrambi. A volte, certe immagini, certi ritmi o certe parole affiorano in spagnolo e poi si trasformano, si piegano, si incarnano nell’italiano. C’è una fusione, una compenetrazione linguistica che riflette esattamente ciò che sono: una donna attraversata da più mondi, da più identità. La lingua, nella mia poesia, non è mai solo uno strumento. È un territorio in cui si combatte e si guarisce. È il luogo dove si può abitare anche l’assenza, e dare nome a ciò che altrimenti resterebbe invisibile.
La mia poesia, negli anni, ha attraversato un’evoluzione profonda, come un fiume che scava la propria forma nel tempo. Ho sentito sempre più forte il bisogno di avvicinarmi alla sintesi, alla semplicità apparente, ma non come rinuncia: piuttosto come scelta consapevole, come tensione verso l’essenziale. È un lavoro continuo di avvicinamento al mistero, alla fonte, all’origine del linguaggio e dell’essere. Cerco di intingere il pennello nella realtà, nei suoi dettagli più concreti, quotidiani, corporei — ma senza mai dimenticare le mie radici, l’eco della lingua spagnola, il retaggio della mia formazione cubana e latinoamericana. In me vive ancora quell’ipertesto ricco e stratificato che deriva dal neobarocchismo, dalla scrittura piena, musicale, visionaria.
I poeti che ho amato — Rubén Darío, José Lezama Lima, César Vallejo, Rosario Castellanos, Alejandra Pizarnik — continuano ad abitare la mia voce. Da loro ho imparato la libertà del linguaggio, la profondità del simbolo, la potenza della frattura. Anche quando oggi cerco la luce di un verso limpido, porto con me la complessità, il ritmo interiore, il dialogo con l’ombra e con l’enigma. La mia poesia, quindi, è un ponte tra densità e trasparenza, tra radice e apertura, tra il canto antico e una lingua che si fa nuova ogni giorno.
Hai ottenuto numerosi riconoscimenti e sei molto attiva in ambito culturale: che cosa manca secondo te alla poesia di oggi? Cosa, invece, ha e può dare?
Credo che alla poesia di oggi manchi, spesso, il coraggio di sporcarsi con la realtà, di farsi corpo vivo nel mondo. In molti casi si rifugia in un’estetica sterile, autoreferenziale, o viene ridotta a esercizio di forma, dimenticando la sua origine sacrale, il suo ruolo di voce dell’umano. Manca a volte il rischio, il desiderio di dire davvero, di andare in profondità, anche quando fa male.
Ma allo stesso tempo, la poesia di oggi ha anche tanta forza. È plurale, aperta, ibrida. Sta riscoprendo il potere del corpo, del femminile, dell’identità fluida, delle storie marginali. Ha la capacità di creare legami, di guarire, di denunciare. In un mondo frammentato e rumoroso, la poesia può ancora essere uno spazio di silenzio necessario, di resistenza, di ascolto radicale.
La poesia ha e può dare qualcosa che nessun altro linguaggio può offrire: una verità non gridata, ma profonda; una bellezza che non consola, ma sveglia; una parola che non si consuma nel consumo. È ancora — e forse oggi più che mai — uno strumento politico, spirituale, umano. È il luogo dove possiamo tornare a essere vulnerabili e veri.
Arrivo alla tua opera più recente, “Di un’altra voce sarà la paura”. Si tratta di un’opera molto importante, incentrata sul tema della violenza sulle donne, e ricca di riferimenti alla cronaca, ma anche alla tua esperienza personale (hai toccato con mano la violenza). Quanto è stato difficile o doloroso scriverlo?
"Di un’altra voce sarà la paura" è forse l’opera più necessaria che io abbia scritto. Necessaria, prima di tutto, per me stessa: perché c’è un momento in cui il dolore non può più restare chiuso dentro, e diventa urgenza, parola, responsabilità. Mi ha spinto il bisogno profondo di non restare in silenzio.
Scrivere questo libro è stato doloroso, sì, ma non quanto il silenzio che spesso ci viene imposto — come donne, come madri, come figlie, come sopravvissute. La violenza sulle donne è una ferita collettiva, che lacera i corpi e le coscienze, che si ripete in ogni angolo del mondo e che troppo spesso viene ignorata, normalizzata. Ho sentito il dovere etico e umano di dare voce a chi quella voce l’ha persa o non l’ha mai avuta.
Nel libro c’è la cronaca, certo — le storie vere, i nomi, i numeri — ma c’è anche la mia storia. Perché anch’io, come tante, ho conosciuto la violenza, in varie forme. E ogni volta che ho sentito la mia voce tremare, ho pensato a chi non ha potuto nemmeno tremare. La poesia, in questo caso, è stata un atto di ascolto e di restituzione. Ho raccolto testimonianze, ho letto lettere, ho guardato negli occhi chi portava il trauma inciso sulla pelle o nell’anima.
Non volevo scrivere un libro di denuncia nel senso stretto del termine. Ho cercato di trasformare la rabbia in ritmo, la frattura in immagine, il dolore in presenza poetica. La poesia non ha il compito di consolare né quello di spiegare: ma può creare uno spazio di memoria, di rispetto, di verità. Ho scritto con il cuore tremante e le mani ferme, cercando sempre la delicatezza, anche nell’orrore. Perché raccontare la violenza non significa riprodurla, ma affrontarla, disinnescarla, guardarla in faccia senza cedere all’indifferenza.
Ogni verso è stato un passo dentro il dolore, ma anche verso la possibilità di trasformarlo. E ogni volta che volevo fermarmi, pensavo a loro — a tutte le donne che non sono più qui — e allora capivo che non potevo tacere.
Sempre sulla tua raccolta più recente: che cosa rappresenta per te questo libro e come si pone rispetto agli altri, rispetto ai tuoi scritti editi?
«Di un’altra voce sarà la paura» rappresenta, per me, un punto di svolta, ma anche una forma di maturazione necessaria. È un libro che nasce da una ferita collettiva, ma si radica in una responsabilità personale. Rispetto ai miei lavori precedenti, è forse l’opera più diretta, più nuda, più esposta. Non rinuncia alla forza poetica, all’immagine, al simbolo — ma li mette al servizio di un’urgenza etica e politica che non può più essere rimandata. Questo libro si pone in continuità con il mio percorso, perché la mia poesia è sempre stata attraversata dal corpo, dalla diaspora, dal dolore, dalla resistenza femminile. Ma qui c’è qualcosa in più: un’apertura, uno sguardo che si allarga, una voce che non parla più solo da sé, ma per e con le altre. È come se avessi prestato il mio linguaggio a un coro muto, trasformando l’individuale in corale, la biografia in testimonianza. È anche, a suo modo, una forma di preghiera laica. Un modo per restituire dignità e visibilità a storie troppo spesso cancellate. Rispetto agli altri miei libri, questo si confronta con il trauma in modo più esplicito, ma non rinuncia mai alla profondità poetica. Anzi, proprio attraverso la poesia ho cercato di creare uno spazio di ascolto, di rispetto, di verità. È un libro che non cerca risposte, ma presenza. E che mi ha cambiata profondamente come donna, come madre, come essere umano.
Quali progetti hai per il futuro?
I miei progetti per il futuro nascono dallo stesso bisogno che mi ha sempre guidata: continuare a dare voce a ciò che chiede ascolto.
I contatti
Sito Web: Yuleisy Cruz Lezcano – Scritti & Poesie
Le prime quattro foto sono tratte dal Profilo Fb di Yuleisy Cruz Lezcano, su sua gentile concessione.
Le ultime due foto sono de La Penna Sognante.
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