lunedì 22 febbraio 2021

La poesia tra Social, talenti, finto-ribellismo, e la fantasia al potere di autori uniti per una vera rivoluzione con idee al plurale

L'assegnazione del Nobel della Letteratura alla poetessa Louise Glück, ha aperto una finestra sul cortile della poesia, da tempo relegato al suo interno. Molti i fiori che vi sbocciano, la maggior parte reclusi nel loro vaso dove mettono radici solide. La poesia si coltiva, tra letture e Social. In particolare, su questi ultimi, è un proliferare di versi, di gruppi, spesso coronati da un numero elevato di like. Non entro nel merito delle valutazioni tecniche: il like stravince, a prescindere da ogni elemento critico, ci sono mondi che sbocciano mostrando la ricchezza delle loro corolle, per dirla in termini poetici. Insomma, la poesia prolifera sui Social, confermando la fortissima frammentarietà del genere. Ma se andiamo a vedere i dati, scopriamo ben altre tendenze, che confermano il fatto che la poesia non ha ampi margini di mercato. Senza contare l'estrema frammentarietà e l'abuso di due termini: militanza e rivoluzione. Termini che spesso non hanno una reale e consapevole connessione con la nostra realtà, in quanto legati a un vagheggiare vecchi moduli rivoluzionari inattuabili all'oggi; oppure idealismi che celano secondi fini, in linea con una società che soddisfa il narcisismo esasperato di diversi intellettuali (non mi fermo alle critiche per partito preso...). 

In un'intervista, il paesologo e poeta Franco Arminio, alla domanda sulle ragioni per cui abbiamo bisogno di poesia, rileva che: "È una diga contro la miseria spirituale". Sull’editoria di poesia contemporanea – #3: Franco Arminio | minima&moralia (minimaetmoralia.it)
Nell'intervista, che vi consiglio di leggere, Arminio fa emergere i nodi cruciali dello status odierno della poesia. Dai Social, al piazzamento sul mercato, passando per i Festival e per la paesologia, materia che ha mosso l'interesse di altri poeti. Cito ad esempio Luca Ispani che con "Il rumore dei passi" (Round Midnight) ha aperto uno spiraglio sui paesi modenesi, in particolare quelli legati all'Appennino, cui Luca, con i suoi versi semplici ma vibranti di colori, è fortemente legato.  
Ma torniamo ad Arminio, che nell'intervista afferma: "Io penso che la poesia non è che possa avere milioni di lettori, ma può averne di più di quelli che ha avuto negli ultimi decenni."
Per le considerazioni rispetto al genere, vi rimando all'intervista completa.
Nelle dichiarazioni il poeta mette in evidenza quello di cui i dati parlano.

Cito un articolo recente di Avvenire, in cui si rileva come in genere su 10 volumi di poesia, 7 tornino all'editore, risultando quindi invenduti. Dati relativi al periodo gennaio-ottobre 2020, rilevano come "il libro più venduto abbia toccato i 9mila esemplari, ma il centesimo non è arrivato nemmeno a quota mille. Solo 38 titoli in versi hanno superato le 2mila copie da inizio anno e soltanto 7 titoli hanno superato le 5mila. Inoltre nei primi 15 posti non compaiono le due collane più prestigiose come la Bianca Einaudi e lo Specchio Mondadori" (Ibidem). 

A fare da contraltare, però, proprio i fenomeni Social, con un Francesco Sole in auge grazie all'ashtag #poesia. Aggiungiamo l'incidenza dei classici e delle poesie d'amore.  
(Dati da La poesia non vende? Non se è social (e d'amore) (avvenire.it)
L'amore, quel sentimento ispiratore di poesie, si conferma come inossidabile motore di lettura e di sentire. Abbiamo ancora bisogno di amore, di parlarne di leggerne... non è un caso che le poesie d'amore siano ancora le predilette dalle persone.
  
Ma abbiamo bisogno anche di rivoluzione. O di poterci immaginare una rivoluzione, un cambiamento che ci scuota dal torpore dei tempi, dall'impressione che nulla cambi. Una rivoluzione che renda un pizzico di speranza, in un mondo in scatafascio.   
E qui arriviamo a un altro punto importante: la poesia militante, che spesso si identifica a una parte politica precisa (forse in maniera univoca ed egemonica), legata alla "rivoluzione". A tal proposito rimando a un interessante articolo di Marco Guzzi (Poesia e Rivoluzione – Marco Guzzi).
Nell'analizzare la dissoluzione di qualsiasi istituzione letteraria, strettamente connesso al decadimento socio-politico-culturale dell'Occidente contemporaneo, Guzzi fa un excursus rilevando la forte frammentazione delle esperienze poetiche. Il tutto è in linea sia con quanto postulato da Pasolini alla fine degli anni Sessanta, rispetto alla riduzione della cultura a commercio, ma con ulteriori sviluppi e implicazioni. Arrivo al concetto di rivoluzione, caro ai poeti maledetti e a quei poeti della rivoluzione bolscevica che dalla stessa rivoluzione sono poi stati poi traditi. Già perché, aggiungerei, come insegna la Rivoluzione Francese, il passo successivo è la Restaurazione...
(Sulla Rivoluzione, rimando a questo articolo su Rimbaud, da Il Sole 24 ore: clicca qui.)
Lo stesso dicasi di quella Beat Generation da cui sono sgorgati i termini di una gioventù anticonformista, in aria di un Sessantotto che in questi anni ha presentato l'amaro conto a diverse generazioni condannate al precariato, dopo la fase fulgida delle belle speranze e la percezione del futuro improvvisamente crollato insieme alle Torri Gemelle nel 2001 e alla borsa  nel 2008. 

Due date recenti cruciali, che hanno dato un giro di vite al concetto di rivoluzione. E di recente conio è il termine Neet. E di quei giovani rivoluzionari restano le fiammelle accese di una ribellione, sedata insieme alle speranze di un futuro. 
In compenso si leggono poesie per la rivoluzione: gli eredi della "Beat-Generation", sotto la bandiera di un preciso schieramento politico, si arrogano il diritto a un'egemonia culturale che porta la rivoluzione in vari luoghi. I versi perdono sempre più la metrica, i poeti si sentono vati per la loro adesione al pensiero rivoluzionario, a prescindere da un reale pensiero libero; si creano eroi della poesia, piccoli capetti che indossano i vessilli della rivoluzione a sproposito, in nome di un passato rivoluzionario che con il presente non ci azzecca. La poesia non vende, non fa grandi numeri, meglio dire, ma ha un seguito segmentato, e la rivoluzione si fa memoria, valorizzazione di progetti multiculturali non sempre adeguati, in bilico tra provincialismo tronfio, identità perdute, cross-over e velleità cosmopolite.  
Ma poi... i poeti rivoluzionari, hanno uno stipendio fisso, a volte vestono Gucci o ammirano artisti che vantano una comunione ideologica, che vestono Gucci. Parlano di lavoratori ma quando i precari che rappresentano la condizione del lavoro attuale vanno in piazza, qualcosa di quella solidarietà ispirata a valori precisi e tanto sbandierata, cambia. E i lavoratori senza tutele aprono le loro partite iva, nel silenzio di coloro che parlano di lavoratori e di rivoluzione. La rivoluzione dei colletti e con la pancia piene: tante parole, spesso di pace, con moine cuoricini, happening un tantino desueti che si considerano innovativi, e tutto cambia per restare come prima, complice un po' di gloria e la sensazione autoindotta di essere in fondo eroi, grazie ai 200 like su una poesia.   

I rivoluzionari, epigoni del Novecento, combattono contro i mostri del Fascismo, indossano egregiamente parole come libertà di espressione, ma poi si annodano intorno al nucleo precipuo del loro pensiero quando un'opposizione o una critica fa storcere loro il naso. 
Sono gli stessi rivoluzionari, avversi al patriarcato che al patriarcato danno il loro tributo, con matrimoni e con un atteggiamento fintamente femminista e liberale, giocando a scacchi con la clandestinità dell'amore, in perfetto stile borghese (tanto criticato). Sono più spesso poeti che hanno un'idea della rivoluzione scollata dalla realtà; l'ideale diventa uno strumento per fare politica attraverso la poesia, anzi la poesia è una vetrina per la politica, a prescindere dall'estetica e dal rispetto dei canoni del genere. 
Versi anche discreti ma sopravvalutati, racconti spacciati per poesia, sigillano l'anelito a cambiare il mondo secondo un orientamento politico preciso; e già si dimentica che essere ribelli significa agire in libertà, oltre le ideologie che rendono ciechi.
Così ci insegnarono i poeti maledetti che con la rottura dei canoni forse sono stati i poeti più efficaci e coerenti. Ora, è tutto ridotto a una vetrina. E quando i precari vanno in piazza, ecco che la poesia dei rivoluzionari resta sulla pagina. Tutto si riaccende quando l'avversario si avvale del pensiero laterale di una proposta differente: la rivoluzione si attiva a prescindere dalla bontà dell'idea. L'idea che puoi realizzare liberamente... purché la pensi come me. 
Ricordando che ogni rivoluzione comporta la restaurazione. E mentre i poeti sui Social liberano versi a volte senza senso, mentre il narcisismo libera versi guerrieri e scollati, spesso corretti al gin, a caccia di ideali, liberi come i burattini di Mangiafuoco, i poeti del silenzio scivolano tra le maglie della storia individuale, registrando i mali del mondo che i sedicenti rivoluzionari si godono le loro serate, crogiolandosi nell'ego di eroi della rivoluzione. Gli stessi avversari della televisione di "stampo berlusconiano", sfilano come tacchini gonfi di orgoglio, recitano i loro versi, si pavoneggiano rendendo la rivoluzione uno spettacolo, alla stregua di quello criticato. 

I silenziosi, vincitori di premi, poeti dell'umiltà antisocial, raccontano il vero, il marcio, spesso con un senso di scoraggiamento che rispecchia l'umore generale. Versi che compongono sinfonie distoniche. Versi sinceri che non fanno rivoluzioni con la pancia piena e i Gucci. Ma anche la poesia si adegua alle pose da Reality, mentre i veri rivoluzionari, quelli che parlano, denunciano il male sono isolati, messi a tacere o ignorati dagli stessi rivoluzionari che, in gruppetti, predicano il comunismo e l'unione tra diverse culture (Basata su un unico pensiero? Non erano quelli della multiculturalità?  Domanda non retorica). La rivoluzione dei restauratori post-Sessantotto. Che si organizzano le serate letterarie per vedere qualche amante fuori porta, extra-coniugale. Con il beneplacito della tanto avversata cultura patriarcale e dell'ipocrisia borghese tanto deprecata, salvo poi aderirvi perfettamente. 
(Vi rimando a questo articolo che comprende una mia intervista. Non me ne vogliano i poeti, non è contro di loro, anzi  io per prima leggo poesia e conosco autori e autrici davvero notevoli e capaci di essere grandi poeti nella vita e nell'arte, in particolare rispettosi degli altri perché  non prigionieri del loro ego: clicca qui)

Nel frattempo, la rivoluzione culturale la fanno i narratori e poeti indipendenti, non schierati e quindi con una visione più aperta al mondo e al nuovo, all'aggregazione che implica la pluralità delle idee, delle trame, senza distinzione di etnia o appartenenza politica. Autori uniti per sostenersi, come ad esempio il CSU. E ci sono tanti narratori uniti dall'amore per le storie. Oltre gli ego, senza Gucci e pugni alzati a ostentare il vuoto e lo scollamento. Forse c'è speranza di una rivoluzione. Dalla narrativa e dalla poesia non ideologizzata. Partendo dall'arte, dalla creatività, dalla rivoluzione della parola che porta alla rivoluzione della Società, come postulò. Rimbaud. E dall'amore vero. Perché la vera rivoluzione parte dalle idee nuove, non da antichi fantasmi ideologici. La rivoluzione dalla fantasia vera e libera, che guarda in faccia al mondo e si diverte a creare, colorando fuori dalle righe e oltre il proprio narcisismo.  


Rivoluzione di Gianni Rodari

Ho visto una formica,
in un giorno freddo e triste,
donare alla cicala
metà delle sue provviste.

Tutto cambia: le nuvole,
le favole, le persone...
la formica si fa generosa...
è una rivoluzione!


  

1 commento:

  1. Ormai il premio Nobel è diventato come le merendine Kinder, una buffonata terrificante.
    E i Social (a volte anche i blog mal gestiti) fanno il resto.
    I millanta "fenomeni letterari" che poi spariscono, le spintarelle, i poeti della domenica...
    E quando c'è chi si impegna sul serio, ecco che viene subito ridicolizzato.
    Siamo nel mondo della non cultura.
    Ciao,
    Jacopo.

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