sabato 31 ottobre 2020

Racconto - "Hijo de la Luna" di Roberta De Tomi

2010

Una medaglia tra le dita. Mi cade sul tappeto al vello di Yak e di Plateau Sheep. Mi soffermo sul cimelio, ne osservo la rotondità, ma non lo raccolgo. Piuttosto, mi rivolgo al ritratto della gitana appeso sopra al camino. Accanto, la fotografia di Roy, quando aveva tre anni. Pelle chiara, occhi di laguna, come in quella canzone che mi fece ascoltare Noelia, un’amica di famiglia, originaria di Madrid, ma divenuta americana fino al midollo, dopo il matrimonio con George Harris.
La mia mente cerca di toccare il cielo, sospinta da una massa informe di ricordi. Mi riporta all’anno in cui avevo appena iniziato a prendere lezioni di volo all’aeroporto della contea di Auglaize. 


1944

“Ehi figliolo, a furia di guardarla, ti si consumeranno gli occhi.”
Il revisore dei conti mi posò le mani sulle spalle. Mi affrettai a nascondere il ritratto dietro la schiena, facendo finta di nulla.
“Pensi che ce la farò?”
“Mio padre diceva sempre che non si è mai troppo in basso per sognare. Io aggiungo che il cielo non è nemmeno così lontano come crediamo.”
Sbuffai.
“Pensavo che volare fosse più facile.”
Avvertii la stretta più forte, seguita dal movimento circolare delle dita impegnate in un massaggio rassicurante.
“Devi soltanto avere pazienza.” Papà si lasciò scappare una risatina. “L’unico brevetto che io avevo alla tua età, era quello dello schettinatore. Una volta mi sono pure schiantato contro un bidone dell’immondizia.”
“Ma davvero?”
“Certo. L’urto mi ha fatto sbalzare in alto. Per controbilanciare lo slancio, mi sono tuffato in avanti, finendo nel bel mezzo di una poltiglia maleodorante. Bucce di banana e altri ammennicoli da pattume.”
Ci spanciammo dal ridere: papà a volte usava termini bizzarri, riuscendo a dare colore alla sua aria di militante dei numeri. A volte non capivo come riuscisse a stare abbarbicato per ore su conti e bilanci senza impazzire. Fossi stato in lui, avrei già cambiato lavoro, senza nemmeno pensarci. Ma per fortuna la sera arrivava, portando occasioni di relax.
Accadeva dopo cena: d’inverno, davanti al caminetto, d’estate, in veranda.
Ci soffermammo sulla volta stellata, lasciando ai grilli l’incombenza di intessere trame sonore che sposassero i nostri silenzi.
Restammo immobili, come antichi idolatri in cerca di aderenze a celesti fantasie. Quello era uno dei pochi momenti in cui ci concedevamo una partita a scacchi con la fantasia. Chiacchieravamo di miti e leggende. Anche se ormai non ero più un bambino, amavo ascoltare i racconti di mio padre: un revisore dei conti con un retroterra romantico. Inutile dire che lo scacco alla fantasia lo faceva sempre mamma Viola Louise, quando ci richiamava all’ordine per la rituale tazza di latte serale.
Papà si ritirò in casa, io mi lasciai ricadere sullo sdraio, tra i rimbrotti di mamma.
“Arrivo tra cinque minuti” le dissi.
Distesi le gambe assaporando la brezza della sera.
La luna piena riempiva la volta celeste, imponendosi alle costellazioni, rese invisibili dal bagliore argenteo.
Una sensazione di calore mi invase. Dalla pelle si irradiò al mio interno, come per osmosi. Ebbi l’impressione di sentirmi stretto nell’abbraccio di una madre premurosa. Il calore divenne più intenso, in un crescendo di sensazioni che si espansero, dandomi l’impressione di essere stato tradotto all’interno di un cerchio fatato.
Un suono lontano mi arrivò alle orecchie. Come l’eco di una ninna nanna, la stessa che mamma mi canticchiava con la sua voce chioccia, sintonizzata su frequenze di velluto (almeno, ci provava!).
“Neil?”
Il volto della luna si trasfigurò. Mamma era accanto a me, visibilmente alterata.
“Sono quasi le undici e domattina hai il lavoro al frutteto di Mister Gibson.”
Per la miseria! Cinque minuti erano diventati mezz’ora! Scattai in piedi, come una molla impazzita.
“Cavoli, mi ero assopito!”
Feci per rientrare in casa, quando mamma attirò la mia attenzione sullo sdraio.
“Hai dimenticato qualcosa, qui.”
Non feci in tempo a recuperare il ritratto, che lo aveva già intercettato.
Notai lo sguardo, solitamente serafico, turbato. Mi avvicinai con fare circospetto.
“L’ho trovato tra i ritratti di famiglia” spiegai.
Mi fissò severa.
“Sai che non devi andare in soffitta senza chiedere il permesso a me o a papà.”
“Avevo bisogno di alcuni libri e non volevo distoglierti dal lavoro di cucito per la signora Anderson.” La vidi fremere, io continuai: “Mentre stavo cercando i libri, mi è capitato tra le mani.”
Non disse nulla. Fissò il volto riprodotto con uno stile così realistico da farlo sembrare vivo. Occhi ardenti di vita, neri come i capelli che ricadevano oltre le spalle, risolvendosi in un ammasso lanuginoso.
La mia domanda arrivò come uno strale.
“Chi è questa donna?”
“Che domande. È una gitana!”
“Lo vedo anche io. Ma mi chiedevo che cosa ci facesse tra i ritratti della nostra famiglia.”
“Semplice. È una di famiglia.”
“Stephen!”
Papà mise le mani avanti.
“Basta con questa farsa, Viola. Dobbiamo dirglielo.”
“Ma avremmo dovuto dirglielo più avanti.”
Fissai mamma negli occhi. Li vidi brillare alla luce della luna. Furono coperti soltanto dal rapido passaggio della mano. Una strizzata, prima della caduta sincronizzata nel baratro della verità.
Papà esordì: “Vedi, figliolo, tu non sei arrivato come sono arrivati June e Dean. Il tuo arrivo è stato, è il caso di dirlo, un dono del cielo. O meglio, della luna.”
Diedi uno sguardo al satellite, poi a mamma, infine a papà.
Lui rivelò: “Era una sera di metà settembre. Io ero rientrato tardi dall’ufficio. Avresti dovuto vedere con che faccia mi ha accolto tua madre! Era spaventata al punto da battere i denti e da non riuscire a spiaccicare una sola parola. A un tratto, l’ho sentito: uno strano verso, come di un animaletto spaurito. Tesi l’orecchio a ogni angolo del soggiorno, poi realizzai che veniva da fuori. Così, uscii in giardino e lì realizzai che il verso era un vagito. Mi guidò verso lo spiazzo illuminato dalla luna. Mi spostai con cautela e, mano a mano che mi avvicinavo, intravidi una culla. In quella culla c’eri tu.”
Rimasi senza fiato.
Il revisore indicò il ritratto.
“Questo era sotto la coperta che ti avvolgeva.”
“Quindi non l'avete mai vista... dal vivo?” chiesi, incuriosito.
Mamma-Viola scosse la testa.
“No. Anzi, la nostra impressione è che questa donna sia morta poco dopo la tua nascita. Quando ti abbiamo trovato, dovevi avere più di mese.”
Sbattei le ciglia, perplesso.
“Vuoi dire che qualcuno deve avermi accudito dopo la morte della gitana e, a un certo punto, mi ha portato da voi?”
Papà annuì.
“Supponiamo che sia andata così. Anche se la tua storia ha una strana affinità con una leggenda che ci ha raccontato Noelia.”
Mamma mi strinse la mano, io risposi con un sorriso. Volevo conoscere il mio passato, andare fino in fondo, anche a costo di dover ingurgitare litri di amarezza.
La donna non indugiò oltre: mi raccontò la leggenda del figlio della luna.
“C’era questa gitana. Bellissima, con occhi ardenti e movenze sensuali, come l’Esmeralda di Notre Dame de Paris. Un giorno la donna si rivolse alla luna per chiederle di riavere con sé l’uomo che l’aveva abbandonata. La luna accettò di aiutarla, a patto che le consegnasse il primo figlio nato dal loro amore. La gitana accettò e in poco tempo si unì all’amato e, mesi dopo, nacque il primogenito promesso al satellite. Pelle chiara e occhi di laguna: per l'uomo, scuro e cisposo, non era però suo figlio. Convinto che la gitana lo avesse tradito con un altro uomo, la uccise. In seguito, abbandonò il bambino, che fu accolto e accudito dalla luna.”
Mamma cedette la parola a papà.
“Così la luna divenne madre” farfugliò, sorridendo.
Fissai il ritratto della gitana. Era lei mia madre?
O era…
Viola Louise mi prese il volto tra le mani.
“Tu sei il figlio della luna.”
Il revisore si asciugò una lacrima.
“Ma per noi, sei nostro figlio. La biologia è un dettaglio.”
Mi rivolsi a papà. Cercai di parlare, ma la lingua era paralizzata. C’erano troppe emozioni, tese come fili invisibili. Ci legavano in maniera indissolubile, ben oltre gli alfabeti noti.
Papà si avvicinò a me e a mamma. Ci abbracciò, liberando ogni goccia di emozione.
“Avremmo dovuto dirglielo più avanti.”
“Non importa, Viola. Nostro figlio ha il cielo scritto nel destino. Di certo, presto tornerà alla luna. Non so come, ma sento che tornerà dalla sua mamma, in un modo o nell’altro.”

2009
Raccolgo la medaglia e la ripongo nella teca. Non ho mai creduto davvero al destino, ma dopo aver ascoltato di nuovo la canzone Hijo de la Luna, qualcosa mi ha riportato al mio passato.
La gitana è rimasta per anni appesa alla parete della mia stanza. Sospesa, come il mistero del mio arrivo a casa Armostrong. A volte immagino che si tratti di un sogno. Altre volte penso che essere figlio della luna non sia il frutto di una casualità.
Poi è arrivato Roy. Anno 1989. Vent’anni dopo l’allunaggio. Un neonato che ho trovato in una radura, durante una vacanza. Genitori ignoti, lacrime tra le ciglia, vagiti soffocati dalla stanchezza. Pelle chiara e occhi di laguna. Come me.
Un bambino battezzato dalla luce della luna.
Roy è stato in seguito adottato da Jean e Arnold, una splendida coppia di Columbus.
È diventato ingegnere aerospaziale ed è stato selezionato per una spedizione. Non ricordo il nome della missione, ma il filo che ci lega mi dà conferma delle nostre radici comuni.
Pelle chiara e occhi di laguna.
Sollevo la medaglia. È tonda come la luna piena.
Forse, un giorno, anche Roy riceverà quella medaglia. La medaglia d’oro del Congresso.

N. Armstrong










Nessun commento:

Posta un commento