Ci sono persone che non fanno rumore. Vivono una vita apparentemente mediocre. Devono recitare una parte per una mera questione di obblighi sociali. Sono ignorate, bistrattate da gruppi che si elevano fermandosi all'apparenza.
L'eleganza del riccio, romanzo di Muriel Barbery edito da e/o, racconta di queste persone. Si tratta di un romanzo in cui mi sono ritrovata. Non tanto per le doti o per l'intelligenza dei personaggi che si rinchiudono nel loro bozzolo, quanto per i silenzi che conosco, per quell'obbligo di tacere perché in fondo, "non sei nessuno". Ti senti avvolto nel mantello dell'invisibilità, rifiutando le prassi dei furbi che si elevano, dileggiandoti. Ogni riccio vuole farcela da solo, con il risultato che se ce la fa, non deve rendere favori grossi a qualcuno che, come lo ha messo lì, al primo colpo di vento può spazzarlo via.
Renée è una portinaia che rispecchia i canoni attribuiti alle portinaie. Non ha un fisico prestante, è sciatta, e dal volto non trapela intelligenza. Se non fosse che, dentro ha un mondo che non può esprimere. I vincoli sociali sono imprescindibili e lei, di umili natali, non può avanzare pretese. Segno, insomma, della fallacia delle rivoluzioni con cui ci siamo illusi di abbattere le barriere sociali. Al contrario, negli anni, le situazioni sembrano mantenersi sul piano della divisione, pur con qualche elemento attenuato.
Così la protagonista del romanzo di Barbery si trascina nell'esistenza, osservando lo scorrere della vita di persone abbienti di cui coglie la piccolezza di cui lei dovrebbe apparentemente essere l'esponente. Ma la mediocrità non è questione di soldi o di grandi imprese, lo scopriremo presto.
Qualcosa cambia quando entrano nella vita della donna due persone speciali. Una bambina di 12 anni, Paloma, altro riccio super-dotato con pensieri suicidi. E un nuovo coinquilino, un signore giapponese, Ozu, che porta il cognome di un regista amato da Renée. I due personaggi capiscono che la portinaia non è quello che sembra, complice Anna Karenina e il loro sguardo acuto e profondo.
L'opera della scrittrice francese ci consente di entrare nel mondo della protagonista, cogliendone le lacerazioni, ma anche l'arguzia. Tra argomentazioni filosofiche, tesi smontate, osservazioni di un mondo che soltanto in apparenza splende, Renée rappresenta in pieno le tensioni di chi, ogni giorno, tace quello che è.
In lei ho rivisto i silenzi in cui ci si costringe sul lavoro, dove "guai a essere bravi perché poi qualcuno teme di essere scalzato". E allora diventi uno stupido funzionale, per quieto vivere, salvo stringere a te un mondo di idee, creatività in fase di elaborazione. Nella portinaia di Barbery ho visto l'emblema di una società incapace di svincolarsi dall'apparenza. E l'uguaglianza è una pia illusione in cui ci crogioliamo, insieme alla mobilità sociale che è diventata bandiera di quei Sessantottini pieni di speranza e di cui George Martin celebra lo sfacelo in Armageddon Rag.
L'apparenza, insomma, prevale, il giardino dei narcisi si arricchisce. Ma il riccio, con i suoi aculei e il musetto sfuggente, animale privo di bellezza basata sui canoni estetici correnti, sa essere elegante nella capacità di nascondersi. A volte si rivela e sa stupire, senza regalare illusioni.
In questo romanzo, i ricci trovano giustizia, oltre le apparenze. Un romanzo da leggere, scritto con eleganza, ma anche ironia condita dall'amarezza di un vivere che spesso sembra non dare speranza.
Un romanzo che parla degli invisibili che valgono. E ce ne sono tanti, più di quelli che pensiamo, costretti alla mediocrità e allo slogan imbecille "tu non sei nessuno".
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