lunedì 25 novembre 2019

"Lividi": un racconto per il 25 novembre

Prendi 3 parole: violenza, donna, alienazione parentale

Non lo vedevo ormai da tempo, mio figlio. Roberto mi aveva bloccato su WhatsApp. Quando mi chiamava, mi buttava giù il telefono. Eppure non gli avevo fatto mai mancare nulla.
"Mi scusi, per il...?"
Non capii la parola. Sollevai lo sguardo sulla  donna, in piedi, davanti a me. Capelli corti, occhi chiari e umidi, come se fossero stati fatti per piangere.
Scrollai il capo.
"Prego?"
La donna riformulò la domanda: "Dovrei andare in consultorio. Mi saprebbe indicare l'edificio?"
Mi accorsi allora della macchia sullo zigomo. Un livido.

Le risposi, cercando di non fissare quella macchia che mi faceva pensare al telegiornale e al sangue. Alla morte, anche.
"Deve entrare alla Villa e poi prendere la porta sulla destra. Stia attenta perché è pesante."
La donna mi sorrise debolmente.
"Grazie. Sono abituata alla pesantezza."
Si avviò verso la gradinata, io alzai lo smartphone. Sperai che Roby mi contattasse, ma era solo un'illusione. Sua madre... e mia suocera... avevano giocato con la sua testa. Gli avevano detto che avevo fatto cose terribili. Che ero un pessimo padre. Io che gli cambiavo i pannolini e gli davo il biberon di notte per consentire a Marzia di riposare. Anche se per me la sveglia suonava alle 6.00. Era un dolce peso: un fagotto che cullavo e mi spupazzavo come non avevo mai fatto con un marmocchio.
Alzai gli occhi dal telefono. La donna mi guardava dall'alto della scalinata. Scese e mi si avvicinò, torcendosi le dita per il nervoso.
"Posso chiederle una cortesia?"
"Mi dica."
"Mi potrebbe accompagnare?"
Mi guardai intorno, poi le guardai il viso. Non era bellissima, ma aveva negli occhi un mondo che... non saprei dire nemmeno oggi.
Ci avviammo verso la Villa. A un tratto, mi prese per mano. All'inizio ero perplesso, poi la accolsi e sentii il freddo del palmo.
"Sta aspettando la telefonata di qualcuno?"
Entrammo senza fretta. Un'infermiera ci passò accanto, salutandoci.
"Sì. Di mio figlio."
"Come si chiama?"
Le aprii la porta sulla destra.
"Roberto. Ma non vuole più sentirmi."
Lei passò, io la seguii chiudendo l'uscio delicatamente.
"Alienazione parentale?"
"Parola che non esiste. Ma dovrebbe essere quella cosa lì."
Ci fermammo a metà del corridoio.
"Il figlio non la vuole sentire? Veramente?"
"Mio figlio mi odia."
"L'odio è comune a tanta gente."
"Mi prende in giro, quando riesco a sentirlo. Ha dimenticato quando andavamo fuori insieme. Quando andavamo a nuotare. Quando andavamo sull'argine con la bike."
"E la madre?"
Mi strinsi le spalle.
"Non l'ho mai sfiorata. Nemmeno con un fiore. L'ho mantenuta quando era in difficoltà. Ho fatto tutto e ora mi trovo con niente. E con un figlio contro, senza ragioni."
"Direbbero che lei fa la vittima. E che io sono una vittima."
Le presi le mani.
"Non mi hai detto nulla di te. Se posso darti del tu."
Lei sorrise. "Certo. Ma hai capito tutto con uno sguardo"
I suoi occhi mi rinfrancarono.
"Lo sai? Siamo tutti e due vittime."
"Di me parlano meno."
"Purtroppo sì. Io ho i lividi sulla pelle. Tu nel cuore. E quelli non si vedono." Mi porse la mano. "Piuttosto, io sono Tina."
"Io, Mercurio."

Una donna vittima di violenza da parte del suo uomo.
Un uomo che è vittima di una donna.
La violenza è ovunque. 


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