DUE PAROLE (di Stefano Messori)
Era metà degli anni settanta e vivevo in un piccolo paesino adagiato ai piedi delle colline emiliane. Secondo di tre fratelli maschi, eravamo felici di quel poco che scoprivamo intorno a casa, una di quelle in affitto, per i poveri.
Andavamo a scuola dalle suore e nella mia classe rividi lei. Abitava nel mio stesso quartiere di periferia, ai margini di campi di margherite e vigneti, dove ci eravamo già incrociati a distanza. Ero biondo e paffutello, tanto che i parenti mi torturavano le guance ogni volta che si andava con la 500 bianca a fargli visita. Odiavo quei pizzicotti e il gioviale sadismo nel farmi arrossare le guance.
Lei aveva una frangetta scura, sotto la quale spiava il mondo con regale timidezza. Il resto dei capelli era raccolto in un fazzoletto chiaro, annodato dietro la nuca. L'abitino di cotone celava le ginocchia ma non i calzini bianchi col bordo all'uncinetto. Le scarpette nere risaltavano lucide, non come le mie della stessa fattura ma già consunte per averle ereditate da mio fratello maggiore.
Il sole pomeridiano di fine maggio irradiava un prematuro calore estivo, e le nostre ombre giocavano a nascondino ai nostri piedi. Non ricordo se avessimo 4 o 5 anni compiuti, ma Francesca aveva già un modo tutto femminile di approcciarsi mentre reggeva la sua bici fornita di rotelline stabilizzatrici. Io ero un indomito temerario. Precoce, avevo voluto imparare a cavalcare la bicicletta di mio fratello maggiore, lasciando a lui la mia rossa. Quella verde menta aveva un sinuoso manubrio a corna, come quello dei centauri dei film in voga in quegli anni, e un sellino lungo e imbottito da poter caricare un esile passeggero.
«Ciao» disse lei fissando il mio destriero. Il suo, ricordava un pony rosa e imbellettato come la moda di fine '700 con improbabili zoccoli bianchi e rotondi.
«Ciao» risposi con la mia proverbiale diffidenza e d'istinto mi interposi tra lei e il suo obiettivo, così dovette alzare lo sguardo.
E fu letale.
Per me.
I suoi occhi scuri brillarono incollandosi ai miei.
Sbocciò inatteso un sorriso tra quelle labbra da damina di porcellana.
«È proprio bella» disse.
Ero precipitato in uno dei miei universi di fantasia, attraverso l'abisso dei suoi occhi. Finestre incorniciate da una rete di ciglia nere come flessuose zampe di ragni, intenti a ghermire la loro ingenua preda. Non mi accorsi che l'obiettivo fotografico che reggeva mia madre ci immortalava in quell’istante di un bianco e nero d'altri tempi.
«Hai una bella bici» sentii giungere da lontano la sua voce, lanciata come il filo d'Arianna per farmi riemergere da una sensazione mai esplorata, a cui non ero pronto.
«Cosa?» balbettai in trance.
Sorrise, coprendosi il volto, sentendolo avvampare come il cielo al tramonto.
L'incanto mutò. Da suo prigioniero inconsapevole, diventai l'osservatore attivo di un’opera da ammirare.
La sua bici vacillò, incerta, sulle rotelle.
Nei panni di un cavaliere alle prime armi, le avvicinai la mia cavalcatura scintillante.
Non sapevo cosa dirle perché togliesse le piccole mani dal volto, per sentirmi di nuovo bersaglio dei suoi occhi. Giunsero in mio aiuto due parole, che ruppero la gabbia di silenzio.
«Ti piace?»
Il sipario tornò ad aprirsi. Era lo spettacolo più bello a cui avevo assistito fino a quel momento della mia breve vita.
Autore: Stefano Messori
Editing a cura di Roberta De Tomi
Vai al racconto precedente: clicca qui
Nessun commento:
Posta un commento