Dopo aver lanciato il tesserino nel naviglio, Giovanni è rimasto inchiodato nella posizione di lancio, a fissare le acque che hanno ormai assorbito la notte.
Io resto in ascolto del bisbiglio che, dal basso, insinua una tranquillità che non mi appartiene. Mi entra dentro con lo sciabordio di una corrente tiepida.
Io e Ataru restiamo cristallizzati nel tempo di un gesto antico.
C'erano una volta.
Due sfigati.
Uno con gli occhiali.
L'altra con la faccia bloccata da una paresi. Fingevo sorrisi, per coprire la luce umida nello sguardo.
In mezzo c'era un muro che limitava i nostri contatti.
"Giovanni" sussurro, costringendolo a tornare un essere mobile.
Affondo le unghie nei palmi, le sento lacerare la pelle.
"Che cazzo hai fatto?"
Urlo senza accorgermene, se non fosse per il vibrato delle corde contro cui la voce si scontra. Mi precipito contro di lui, lo afferro per la giacchetta.
"Che cazzo hai fatto? Butti così i tuoi anni di sacrifici? Il tuo talento?" lo scuoto, poi "Sei venuto a Milano per gettare i tuoi sogni nel cesso?"
"Elena."
Lui è di nuovo immobile. Trema, gli tremano gli occhi ma io non lo ascolto.
"Perché, Giovanni? Perché rinunci a tutto?"
"Elena."
La voce mi si rompe in gola.
"Spiegamelo, ti prego."
"Elena."
Mi agito e con me agito lui.
"Ho già mia madre che fa il pappagallo." dico.
Lui mi afferra per i pantaloni. Mi impone il silenzio.
"Liberiamoci dei pappagalli. Lasciamoli volare lontano da noi."
"Cosa vuoi dire?"
Mi attiri a te.
"Scappiamo Elena. Io e te."
Scuoto la testa, incredula.
Giovanni.
Il saggio, buon Giovanni.
Il ragazzo delle versioni, il genio della scuola.
Il Super-io che ha rinunciato a fare il Super-Uomo.
No, non può essere lui.
Lo respingo, lui barcolla, quasi cade e mi rivolge un sguardo stupito.
Metto la retromarcia. Sono pronta per scappare ma prima pronuncio la mia sentenza.
"Giovanni, stai a Milano, sfonda nel giornalismo. Ma non stare qua per me." arretro mentre cerchi di avvicinarti "Vai via da me. Ti prego."
Gli volto le spalle, faccio per scappare, ma avverto un peso alle gambe. Un peso di cui mi libero con grande sforzo, mentre alzo le ginocchia e scappo. Scappo lontano, non so dove, cercando la fine del Naviglio, la fine del cielo, la mia fine, la notte in cui gli enigmi si annodano al mio seno, insieme ai silenzi che irrompono, di nuovo.
Mi fermo nella notte più nebulosa, davanti al vicolo cieco di questa città che mi annega.
Non so più dove sono.
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